Siamo nel 1987. Bon Jovi, Whitney Houston, George Michael e gli U2 erano in cima alle classifiche, al cinema uscivano Full Metal Jacket, Gli Intoccabili e Wall Street. Erano anche gli anni delle supermodelle, icone di stile e bellezza, contese dalle case di moda. Ma non da Barbour, che fa una scelta completamente diversa.
Il catalogo Barbour 1987 avrà come protagonisti i clienti veri, ma non solo. Godetevi questo viaggio (un po’ nostalgico) in una storia di consistenza di marca e di sapiente gestione del capitale comunicativo.
Serve a poco lavorare sul brand se, nel tempo, viene a mancare un’inflessibile coerenza tra l’identità di marca e ciò che viene rappresentato nei media con parole, immagini, percezioni. Vale tanto per una casa di moda, quanto per un’industria metalmeccanica. Ogni messaggio che porta il nostro nome, va a riempire il recipiente del capitale comunicativo. Più questo recipiente è grande e pieno, più forza avrà il brand e meno sforzo occorrerà per farsi riconoscere come “migliore risposta a un bisogno”.
Quando ho letto la storia di Barbour e dei suoi clienti-fotomodelli, sono andata alla ricerca delle foto originali, generosamente caricate su Flickr dall’utente Thornproof, ho letto i testi al loro interno e sono rimasta molto colpita da come mi sia arrivata forte e chiara la percezione della sua identità, del beneficio che può trarre l’acquirente dall’uso dei suoi prodotti, è come se – nonostante non sia in target – mi fossi catapultata in un’uggiosa giornata di caccia nell’Inghilterra dell’epoca.
“The best British clothing, for the worst British weather”
La promessa di marca è lì, sotto il logo, spunta dalle nuvole di un paesaggio che ricorda le torbiere per introdurre il lettore in un viaggio dove il prodotto è fedele alleato della quotidianità inglese. Posato su una coperta di lana gialla insieme a strumenti per equitazione, sugli aghi di pino vicino all’ascia di un boscaiolo, affiancato a un retino da pesca o tra i fucili.
Il Barbour si presenta per ciò che è, senza temere di offendere questo o quello.
Lo usano i cacciatori, i pescatori, i boscaioli. Lo usano le persone che si guadagnano da vivere con la natura o che la natura la vivono, protetti dalle intemperie grazie all’iconico tessuto.
Poco dopo, le giacche lasciano spazio a pantaloni, cappelli stivali e al “Thornproof Dressing” del quale ricordo distintamente l’odore. Negli anni ’90, “Il Barbour” (il marchio si era ormai volgarizzato e il brand identificava la giacca) era tornato di moda – o forse non aveva mai smesso di esserlo – e in mezzo alla gente era possibile distinguere letteralmente a occhi chiusi la presenza di un capo trattato con quella cera. Anche questo fa brand, era la sua impronta olfattiva.
I clienti veri nel catalogo e nell’innovazione di prodotto
La bella scoperta arriva leggendo. I clienti veri non sono solamente immortalati al posto di modelli famosi, ma Barbour ci racconta che sono stati coinvolti attivamente nella creazione del prodotto. Pagina dopo pagina, scopriamo che l’azienda li ha ascoltati per capire come rendere ogni capo più adatto alla sua funzione: più comodo e traspirante durante l’equitazione, leggero e dotato di tasche portacartucce per il cacciatore, con il petto anti-tempesta per il pescatore e via dicendo.
Ogni parola intreccia saldamente il brand al suo utilizzatore ideale, raccontandogli quanto è stato prezioso per identificare la migliore forma, consistenza, struttura del capo. Non c’è spazio per una vendita selvaggia e svilente. Ci sono solo Barbour e il suo cliente. Io, che non sono in target, mi sento quasi spettatrice silenziosa di una conversazione intima, nella quale gli interlocutori parlano la stessa lingua e, in qualche modo, è come se s’intendessero. Leggere per credere.
Prendiamoci il tempo per fare impresa come Barbour
Oggi, più di 35 anni dopo, stiamo parlando di questo catalogo. Non so a te, caro lettore, ma a me piacerebbe che, tra 35 anni, qualcuno parlasse della mia azienda e la portasse come esempio. Temo che questa sostanza si sia un po’ persa, ma al contempo sono fiduciosa in merito al fatto che possa essere recuperata.
Creare un’impresa con basi solide, con una vera visione di lungo periodo, che non si lascia ammaliare dall’effimero e dal finto perbenismo, ma porta avanti con coerenza e coraggio la sua identità. Questo, è proprio questo che fa la differenza tra qualcosa che svanisce e qualcosa che rimane. In un mondo che cambia, abbiamo bisogno di cose che sappiano restare.
Tutte le foto originali sono visibili nel profilo di Thornproof, sotto forma di pagine del catalogo scansionate.
Siamo nel 1987. Bon Jovi, Whitney Houston, George Michael e gli U2 erano in cima alle classifiche, al cinema uscivano Full Metal Jacket, Gli Intoccabili e Wall Street. Erano anche gli anni delle supermodelle, icone di stile e bellezza, contese dalle case di moda. Ma non da Barbour, che fa una scelta completamente diversa.
Il catalogo Barbour 1987 avrà come protagonisti i clienti veri, ma non solo. Godetevi questo viaggio (un po’ nostalgico) in una storia di consistenza di marca e di sapiente gestione del capitale comunicativo.
Serve a poco lavorare sul brand se, nel tempo, viene a mancare un’inflessibile coerenza tra l’identità di marca e ciò che viene rappresentato nei media con parole, immagini, percezioni. Vale tanto per una casa di moda, quanto per un’industria metalmeccanica. Ogni messaggio che porta il nostro nome, va a riempire il recipiente del capitale comunicativo. Più questo recipiente è grande e pieno, più forza avrà il brand e meno sforzo occorrerà per farsi riconoscere come “migliore risposta a un bisogno”.
Quando ho letto la storia di Barbour e dei suoi clienti-fotomodelli, sono andata alla ricerca delle foto originali, generosamente caricate su Flickr dall’utente Thornproof, ho letto i testi al loro interno e sono rimasta molto colpita da come mi sia arrivata forte e chiara la percezione della sua identità, del beneficio che può trarre l’acquirente dall’uso dei suoi prodotti, è come se – nonostante non sia in target – mi fossi catapultata in un’uggiosa giornata di caccia nell’Inghilterra dell’epoca.
“The best British clothing, for the worst British weather”
La promessa di marca è lì, sotto il logo, spunta dalle nuvole di un paesaggio che ricorda le torbiere per introdurre il lettore in un viaggio dove il prodotto è fedele alleato della quotidianità inglese. Posato su una coperta di lana gialla insieme a strumenti per equitazione, sugli aghi di pino vicino all’ascia di un boscaiolo, affiancato a un retino da pesca o tra i fucili.
Il Barbour si presenta per ciò che è, senza temere di offendere questo o quello.
Lo usano i cacciatori, i pescatori, i boscaioli. Lo usano le persone che si guadagnano da vivere con la natura o che la natura la vivono, protetti dalle intemperie grazie all’iconico tessuto.
Poco dopo, le giacche lasciano spazio a pantaloni, cappelli stivali e al “Thornproof Dressing” del quale ricordo distintamente l’odore. Negli anni ’90, “Il Barbour” (il marchio si era ormai volgarizzato e il brand identificava la giacca) era tornato di moda – o forse non aveva mai smesso di esserlo – e in mezzo alla gente era possibile distinguere letteralmente a occhi chiusi la presenza di un capo trattato con quella cera. Anche questo fa brand, era la sua impronta olfattiva.
I clienti veri nel catalogo e nell’innovazione di prodotto
La bella scoperta arriva leggendo. I clienti veri non sono solamente immortalati al posto di modelli famosi, ma Barbour ci racconta che sono stati coinvolti attivamente nella creazione del prodotto. Pagina dopo pagina, scopriamo che l’azienda li ha ascoltati per capire come rendere ogni capo più adatto alla sua funzione: più comodo e traspirante durante l’equitazione, leggero e dotato di tasche portacartucce per il cacciatore, con il petto anti-tempesta per il pescatore e via dicendo.
Ogni parola intreccia saldamente il brand al suo utilizzatore ideale, raccontandogli quanto è stato prezioso per identificare la migliore forma, consistenza, struttura del capo. Non c’è spazio per una vendita selvaggia e svilente. Ci sono solo Barbour e il suo cliente. Io, che non sono in target, mi sento quasi spettatrice silenziosa di una conversazione intima, nella quale gli interlocutori parlano la stessa lingua e, in qualche modo, è come se s’intendessero. Leggere per credere.
Prendiamoci il tempo per fare impresa come Barbour
Oggi, più di 35 anni dopo, stiamo parlando di questo catalogo. Non so a te, caro lettore, ma a me piacerebbe che, tra 35 anni, qualcuno parlasse della mia azienda e la portasse come esempio. Temo che questa sostanza si sia un po’ persa, ma al contempo sono fiduciosa in merito al fatto che possa essere recuperata.
Creare un’impresa con basi solide, con una vera visione di lungo periodo, che non si lascia ammaliare dall’effimero e dal finto perbenismo, ma porta avanti con coerenza e coraggio la sua identità. Questo, è proprio questo che fa la differenza tra qualcosa che svanisce e qualcosa che rimane. In un mondo che cambia, abbiamo bisogno di cose che sappiano restare.
Tutte le foto originali sono visibili nel profilo di Thornproof, sotto forma di pagine del catalogo scansionate.
Faccio collimare l’identità di aziende e prodotti con i bisogni del pubblico, utilizzando le competenze che ho acquisito in 17 anni di evoluzione professionale nel campo del Brand Management e della Psicologia dei Consumi.
Insegno queste materie in alcuni master di diverse Business School, per i quali ho formato aule di neolaureati e team aziendali, tra cui professionisti e middle manager di Sisal, Unilever, Electrolux.
Ho avuto una cattedra di Brand Management e Riposizionamento Strategico presso l’Università Accademia Santa Giulia (MIUR). Sono relatrice in alcuni tra i più importanti eventi di settore e ho collaborato con l’Università di Bologna per alcune docenze nei corsi di laurea in Scienze Politiche, Scienze della Comunicazione e per il master MIEX International Business Management.