Quante volte ti è capitato di lavorare ben oltre l’orario perché dovevi assolutamente portare a termine un progetto? “Un’ultima modifica” – ti dici – e poi ti ritrovi in ufficio a scusarti con la signora delle pulizie. Poi, una volta finito, torni a casa e sprofondi sul divano con appena le energie per guardare un telefilm su Netflix. Ci siamo passati tutti.
Eppure, molte aziende continuano a spingere i dipendenti a “dare il massimo”; trasformando quella che è a tutti gli effetti un’inefficienza gestionale di scadenze e risorse in uno spasmodico inseguimento della tanto ambita soddisfazione lavorativa. È quella che viene definita hustle culture: una corsa frenetica verso il successo che pone gli obiettivi di carriera al di sopra di qualunque altro bisogno dell’homo business, una glorificazione del duro lavoro che dimentica le fisiologiche conseguenze di uno stile di vita che non lascia spazio ad affetti, tempo libero e, soprattutto, salute mentale.
Sei davvero soddisfatto del tuo lavoro?
L’ironia in tutto ciò, è che la job satisfaction è in realtà definita come “il grado per cui una persona si sente gratificata o completa nello svolgere il proprio lavoro” (Moorhear & Griffin 2010). Un traguardo che passa per elementi di soddisfazione ben definiti e validati da numerosi studi:
- Paga e benefici: percezione di una paga equa e di benefit proporzionali all’impegno personale (Witt & Nye 1992).
- Promozioni e riconoscimento di meriti e seniority (Hodgetts 1991).
- Lavoro stesso: orari flessibili e ottimizzazione dei task personali.
- Leadership adeguatamente focalizzata sulle persone o partecipativa (Glisson & Durick 1988).
- Work group: team di lavoro e colleghi in grado di supportarti (Hodgetts 1991).
- Condizioni lavorative confortevoli e sicure.
Il vero dramma è che, purtroppo, in molti si fermano al primo punto, considerando l’eventuale promozione il giusto compenso per il tempo e le energie sacrificate. Una soddisfazione parziale, ma tangibile, che annebbia la percezione di ciò di cui abbiamo davvero bisogno: nuovi stimoli, tempo ed energie per spendere il denaro che tanto duramente ci siamo guadagnati o, più semplicemente, tempo per riposare.
A questo proposito, quand’è stata l’ultima che hai riposato davvero?
Il costo nascosto della hustle culture
Nel suo libro Sleep Revolution, Arianna Huffington scrive:
“sacrifichiamo il sonno in nome della produttività, ma, ironicamente, la perdita del sonno può costare circa 11 giorni di produttività in un anno per ogni lavoratore (si parla circa di 2.280 $ all’anno persi). Come nazione invece, si parla di 252 giorni totali e 63 miliardi persi”.
Un costo sommerso, che molte aziende ignorano e che molti dipendenti cercano, inutilmente, di arginare con brevi pause a base di caffeina. È interessante notare come la cultura della performance spinga manager e dipendenti ad accettare di buon grado pause a base di caffè, che implicitamente puntano a rimandare il riposo e a tenere alto il livello di produttività (piccolo spoiler: non funziona davvero così), e a storcere il naso di fronte a opzioni che potrebbero concretamente contribuire a ricaricare le energie.
Vi è mai capitato di lavorare in un’azienda che, ad esempio, incentivasse brevi pisolini?
Nella maggioranza dei luoghi di lavoro, questa pratica è ancora un tabù, nonostante numerosi studi dimostrino che programmare un breve sonno di circa 15 minuti (definito, non a caso, power nap), aiuta mente e corpo a ricaricarsi senza generare la sonnolenza tipica delle fasi più profonde del sonno.
Riposo e recupero: come il cervello si rigenera ogni giorno
Per chi avesse ancora dubbi sul ruolo del riposo nella produttività, arriva in aiuto la biologia, dove il termine “omeostasi” racconta un concetto biologico fondamentale: l’abilità del cervello di mantenere il benessere e rivitalizzarsi ogni giorno. Un processo necessario e cadenzato da uno specifico ritmo.
Quando il corpo non è riposato e non riesce a gestire il sovraccarico di lavoro, perdiamo un sacco di tempo e forza mentale. Cerchiamo in tutti i modi di tornare a lavorare e dare il 100% prima di aver recuperato le energie: disperdendole, di fatto, ancora di più e portando il nostro cervello ad automatizzare e applicare in modo continuativo questo meccanismo.
Tutti quanti ci siamo trovati almeno una volta a dire: “dai, rispondo all’ultima email e poi stacco”, per poi ritrovarci a letto a pensare ancora al lavoro. Ciò accade perché il cervello ha perso l’abitudine a eseguire il proprio reset, e rimane impegnato a pensare a ciò che dovrà gestire il giorno seguente, impedendoci di ricaricarci completamente.
In questi casi, al risveglio ci sembrerà di aver riposato, ma molto presto ci sentiremo di nuovo esausti; perché riposo e recupero non sono la stessa cosa. Interrompere il lavoro non equivale a recuperare le energie.
Come i ricercatori Zijlstra, Cropley e Rydsted hanno scritto nel loro articolo del 2014, il recupero interno si riferisce a brevi periodi di tempo di rilassamento che accadono durante alcuni momenti del quotidiano. Nel caso del lavoro, sotto forma di pause programmate, o non programmate, in cui spostiamo la nostra attenzione su altro quando le nostre risorse fisiche e mentali sono temporaneamente finite. Il recupero esterno invece, si riferisce a quel riposo prolungato che si può attuare al di fuori dell’orario lavorativo; ad esempio, riposare durante il weekend, le festività o i periodi di ferie.
Riprenderci del tempo per noi (senza eccesso di stimoli)
In breve, l’ormai celebre Netflix&Chill non è un’attività in grado di rilassare la mente e ricaricarci le energie, anzi. In realtà, la nostra abitudine alla sollecitazione esterna ci porta a percepire con maggiore intensità anche quello stimolo e, soprattutto di sera, a minare il ruolo chiave del sonno. Un insieme di elementi che, uniti a forti stress lavorativi, può portare a pesanti condizioni di burnout.
In quei momenti, il cervello sta accusando il non aver ricevuto abbastanza pause dagli stadi di arousal mentale e ha bisogno di riposare, proprio come corpo ha bisogno di riposare dopo una giornata in palestra.
Per concedergli questo riposo, dobbiamo impegnarci a distaccarci dai pensieri lavorativi molto prima di andare a dormire, variare le modalità con cui ci rilassiamo una volta a casa e impiegare il nostro tempo libero nel recupero profondo e in svaghi svincolati da tematiche professionali.
Ma la regola d’oro, di cui ogni giorno beneficio io stessa e molti altri con me, è chiederci costantemente come stiamo.
Siamo dove vorremmo essere o stiamo rinunciando a una parte di noi stessi? Ci sentiamo appagati e supportati nel nostro lavoro o c’è qualcosa che stiamo sopportando da troppo tempo?
La risposta a queste domande può fare la vera differenza tra successo e burnout.
Scopri dove ho studiato l’argomento:
Achor, S., & Gielan, M. (2016). Resilience is about how you recharge, not how you endure. Harvard Business Review, 24.
American Academy of Sleep Medicine. (2011, September 2). Insomnia costing US workforce $63.2 billion a year in lost productivity, study shows. ScienceDaily. Retrieved April 15, 2022 from www.sciencedaily.com/releases/2011/09/110901093653.htm
Latham, G. P., & Locke, E. A. (1975). Increasing productivity and decreasing time limits: A field replication of Parkinson’s law. Journal of Applied Psychology, 60(4), 524.
Panigrahi, C. M. A. (2016). Managing stress at workplace. Journal of Management Research and Analysis, 3(4), 154-160.
Zijlstra, F. R., Cropley, M., & Rydstedt, L. W. (2014). From recovery to regulation: An attempt to reconceptualize ‘recovery from work’. Stress and Health, 30(3), 244-252.
Quante volte ti è capitato di lavorare ben oltre l’orario perché dovevi assolutamente portare a termine un progetto? “Un’ultima modifica” – ti dici – e poi ti ritrovi in ufficio a scusarti con la signora delle pulizie. Poi, una volta finito, torni a casa e sprofondi sul divano con appena le energie per guardare un telefilm su Netflix. Ci siamo passati tutti.
Eppure, molte aziende continuano a spingere i dipendenti a “dare il massimo”; trasformando quella che è a tutti gli effetti un’inefficienza gestionale di scadenze e risorse in uno spasmodico inseguimento della tanto ambita soddisfazione lavorativa. È quella che viene definita hustle culture: una corsa frenetica verso il successo che pone gli obiettivi di carriera al di sopra di qualunque altro bisogno dell’homo business, una glorificazione del duro lavoro che dimentica le fisiologiche conseguenze di uno stile di vita che non lascia spazio ad affetti, tempo libero e, soprattutto, salute mentale.
Sei davvero soddisfatto del tuo lavoro?
L’ironia in tutto ciò, è che la job satisfaction è in realtà definita come “il grado per cui una persona si sente gratificata o completa nello svolgere il proprio lavoro” (Moorhear & Griffin 2010). Un traguardo che passa per elementi di soddisfazione ben definiti e validati da numerosi studi:
- Paga e benefici: percezione di una paga equa e di benefit proporzionali all’impegno personale (Witt & Nye 1992).
- Promozioni e riconoscimento di meriti e seniority (Hodgetts 1991).
- Lavoro stesso: orari flessibili e ottimizzazione dei task personali.
- Leadership adeguatamente focalizzata sulle persone o partecipativa (Glisson & Durick 1988).
- Work group: team di lavoro e colleghi in grado di supportarti (Hodgetts 1991).
- Condizioni lavorative confortevoli e sicure.
Il vero dramma è che, purtroppo, in molti si fermano al primo punto, considerando l’eventuale promozione il giusto compenso per il tempo e le energie sacrificate. Una soddisfazione parziale, ma tangibile, che annebbia la percezione di ciò di cui abbiamo davvero bisogno: nuovi stimoli, tempo ed energie per spendere il denaro che tanto duramente ci siamo guadagnati o, più semplicemente, tempo per riposare.
A questo proposito, quand’è stata l’ultima che hai riposato davvero?
Il costo nascosto della hustle culture
Nel suo libro Sleep Revolution, Arianna Huffington scrive:
“sacrifichiamo il sonno in nome della produttività, ma, ironicamente, la perdita del sonno può costare circa 11 giorni di produttività in un anno per ogni lavoratore (si parla circa di 2.280 $ all’anno persi). Come nazione invece, si parla di 252 giorni totali e 63 miliardi persi”.
Un costo sommerso, che molte aziende ignorano e che molti dipendenti cercano, inutilmente, di arginare con brevi pause a base di caffeina. È interessante notare come la cultura della performance spinga manager e dipendenti ad accettare di buon grado pause a base di caffè, che implicitamente puntano a rimandare il riposo e a tenere alto il livello di produttività (piccolo spoiler: non funziona davvero così), e a storcere il naso di fronte a opzioni che potrebbero concretamente contribuire a ricaricare le energie.
Vi è mai capitato di lavorare in un’azienda che, ad esempio, incentivasse brevi pisolini?
Nella maggioranza dei luoghi di lavoro, questa pratica è ancora un tabù, nonostante numerosi studi dimostrino che programmare un breve sonno di circa 15 minuti (definito, non a caso, power nap), aiuta mente e corpo a ricaricarsi senza generare la sonnolenza tipica delle fasi più profonde del sonno.
Riposo e recupero: come il cervello si rigenera ogni giorno
Per chi avesse ancora dubbi sul ruolo del riposo nella produttività, arriva in aiuto la biologia, dove il termine “omeostasi” racconta un concetto biologico fondamentale: l’abilità del cervello di mantenere il benessere e rivitalizzarsi ogni giorno. Un processo necessario e cadenzato da uno specifico ritmo.
Quando il corpo non è riposato e non riesce a gestire il sovraccarico di lavoro, perdiamo un sacco di tempo e forza mentale. Cerchiamo in tutti i modi di tornare a lavorare e dare il 100% prima di aver recuperato le energie: disperdendole, di fatto, ancora di più e portando il nostro cervello ad automatizzare e applicare in modo continuativo questo meccanismo.
Tutti quanti ci siamo trovati almeno una volta a dire: “dai, rispondo all’ultima email e poi stacco”, per poi ritrovarci a letto a pensare ancora al lavoro. Ciò accade perché il cervello ha perso l’abitudine a eseguire il proprio reset, e rimane impegnato a pensare a ciò che dovrà gestire il giorno seguente, impedendoci di ricaricarci completamente.
In questi casi, al risveglio ci sembrerà di aver riposato, ma molto presto ci sentiremo di nuovo esausti; perché riposo e recupero non sono la stessa cosa. Interrompere il lavoro non equivale a recuperare le energie.
Come i ricercatori Zijlstra, Cropley e Rydsted hanno scritto nel loro articolo del 2014, il recupero interno si riferisce a brevi periodi di tempo di rilassamento che accadono durante alcuni momenti del quotidiano. Nel caso del lavoro, sotto forma di pause programmate, o non programmate, in cui spostiamo la nostra attenzione su altro quando le nostre risorse fisiche e mentali sono temporaneamente finite. Il recupero esterno invece, si riferisce a quel riposo prolungato che si può attuare al di fuori dell’orario lavorativo; ad esempio, riposare durante il weekend, le festività o i periodi di ferie.
Riprenderci del tempo per noi (senza eccesso di stimoli)
In breve, l’ormai celebre Netflix&Chill non è un’attività in grado di rilassare la mente e ricaricarci le energie, anzi. In realtà, la nostra abitudine alla sollecitazione esterna ci porta a percepire con maggiore intensità anche quello stimolo e, soprattutto di sera, a minare il ruolo chiave del sonno. Un insieme di elementi che, uniti a forti stress lavorativi, può portare a pesanti condizioni di burnout.
In quei momenti, il cervello sta accusando il non aver ricevuto abbastanza pause dagli stadi di arousal mentale e ha bisogno di riposare, proprio come corpo ha bisogno di riposare dopo una giornata in palestra.
Per concedergli questo riposo, dobbiamo impegnarci a distaccarci dai pensieri lavorativi molto prima di andare a dormire, variare le modalità con cui ci rilassiamo una volta a casa e impiegare il nostro tempo libero nel recupero profondo e in svaghi svincolati da tematiche professionali.
Ma la regola d’oro, di cui ogni giorno beneficio io stessa e molti altri con me, è chiederci costantemente come stiamo.
Siamo dove vorremmo essere o stiamo rinunciando a una parte di noi stessi? Ci sentiamo appagati e supportati nel nostro lavoro o c’è qualcosa che stiamo sopportando da troppo tempo?
La risposta a queste domande può fare la vera differenza tra successo e burnout.
Scopri dove ho studiato l’argomento:
Achor, S., & Gielan, M. (2016). Resilience is about how you recharge, not how you endure. Harvard Business Review, 24.
American Academy of Sleep Medicine. (2011, September 2). Insomnia costing US workforce $63.2 billion a year in lost productivity, study shows. ScienceDaily. Retrieved April 15, 2022 from www.sciencedaily.com/releases/2011/09/110901093653.htm
Latham, G. P., & Locke, E. A. (1975). Increasing productivity and decreasing time limits: A field replication of Parkinson’s law. Journal of Applied Psychology, 60(4), 524.
Panigrahi, C. M. A. (2016). Managing stress at workplace. Journal of Management Research and Analysis, 3(4), 154-160.
Zijlstra, F. R., Cropley, M., & Rydstedt, L. W. (2014). From recovery to regulation: An attempt to reconceptualize ‘recovery from work’. Stress and Health, 30(3), 244-252.
Appassionata di neuroscienze, psicologia e marketing. Background di studi in Psychological Sciences e un Master in International Marketing Management with Consumer Psychology in Scozia, dal 2018 lavoro in ambito digital marketing. Ho seguito la strategia digital di una startup in ambito fitness, nutrizione e gestione dello stress, specializzandomi in digital marketing e consumer behaviour. Oggi mi occupo dell’ottimizzazione strategica attraverso un’analisi neuro-cognitiva dei servizi e prodotti offerti dalle aziende. Heatmaps, bias cognitivi, nudging, pricing psicologico, comunicazione verbale e non verbale sono il mio pane quotidiano. In perenne formazione, mi piace tenermi aggiornata sui cambiamenti del mercato digitale attraverso articoli di psicologia e ricerche su neuroscienze e marketing strategico.